domenica 30 novembre 2008

Gli oggetti che raccontano un'epoca

Oggi vi propongo un viaggio nel tempo che fu. Niente preistoria, siamo agli inizi degli anni Sessanta.

Qui avevo pochi mesi. Dall'abitino leggero di mia madre e dalla capote tirata giù si capisce che siamo in piena estate. Sono "alla guida" della Cinquecento di mio padre: la sua prima auto. Una grande conquista allora per un giovane avere un'auto. Forse i ragazzi di oggi la danno un po' troppo per scontato. Particolare piccante: noto che avevo già il neo sulla coscia sinistra.


Questa foto purtroppo è un po' sciupata ma l'ho voluta pubblicare per l'oggetto che vedete in primo piano: un giradischi con tanto di 45 giri. Siamo sempre nell'estate del 1963 ed io, seduta sul seggiolone ancora non mi dilettavo ad inserire i 45 giri nel mangiadischi come avrei fatto di lì a qualche anno.
A proposito di apparecchi elettrici ecco spuntare, in quest'altra foto, dietro le mie gambine nude una grossa radio a valvole, che faceva bella mostra sul mobile. Anche il vestitino di mia madre (sulla destra) ci rivela la moda di quel tempo (e anche la sua magrezza). Se penso che mia nonna Vanda (sulla sinistra) aveva l'età che io ho oggi!


Ci avviciniamo a Natale ed ecco i giocattoli di quarantacinque anni fa. Un automobilina di metallo (la plastica ancora non imperversava del tutto)e un paperotto di gomma tra le mani di mia nonna.

Sulla destra troneggia il primo e mitico frigo dei miei genitori, un possente e indistruttibile FIAT. Sul frigo si intravvede appena un vaso di ceramica regalato da mio nonno che viveva a Montelupo Fiorentino (zona di ceramisti) e che ho ancora (grazie a mia madre che non butta via nulla).

Ma ecco le vetrine natalizie della mia infanzia: molte palle di vetro per l'albero, qualche bambola e diverse macchinine. Niente Winx o Gormiti.
Di questa foto non so bene l'anno.
Presumo di avere circa tre anni e stringo la bambola preferita del momento. Si chiamava Roberta e, portento della tecnologia, cammina! Come sono orgogliosa di questo vestitino (insolito per me sempre sportiva) che mi fa sembrare più bambola di Roberta! Ma almeno così gli estranei una volta tanto non mi prendono per un bambino, io che ho sempre i capelli corti e i pantaloncini. Sono sulla terrazza della nostra casa (nostra si fa per dire in quanto siamo in affitto e solo dopo molti anni e molti sacrifici i miei riusciranno a comprarsi un appartamento). Siamo al settimo piano di un palazzo di periferia ed infatti la vista è costituita soprattutto da altri palazzi fine anni cinquanta inizio anni sessanta (anche se essa si estende fino al Cupolone ed alle colline).
Questa foto invece porta dietro l'annotazione della data: 1966 (chissà perché andava tanto di moda fare fotografie davanti allo specchio).

Sono nella camera dei miei genitori. Si nota l'arredamento delle camere da letto che dovevano durare tutta una vita. Armadio di legno lucido con un grande specchio e tappezzeria a fiori. Sapete cosa è l'oggetto misterioso sullo sfondo a sinistra? L'unico televisore di casa: a valvole, in bianco e nero, talmente prezioso che veniva coperto perché non prendesse polvere.


Ed infine eccomi un po' più grandicella (ma neanche tanto visti gli incisivi mancanti) con il mio vestito cucito dalla mamma. Sono sempre nella sua camera ma davanti al cassettone questa volta, su quale spicca un orologio carillon a forma di gondola veneziana. Mi ricordo che, mentre suonava, il gondoliere e la ballerina si muovevano a tempo.
Spero che questo viaggio nel tempo, in questa domenica grigia e piovosa, col giornale pieno di notizie deprimenti, abbia distratto e rilassato anche voi quanto me.

Grazie ad Unodicinque per l'idea.

venerdì 28 novembre 2008

La frustrazione di chi fannullone non è

In questo periodo sono particolarmente stanca. Avverto dei segnali allarmanti di mancanza di lucidità (tipo versare le lenticchie nel bicchiere anziché nel piatto). Spero sia semplicemente la stanchezza e la mancanza di un adeguato numero di ore di sonno, altrimenti c'è veramente da preoccuparsi.
Una delle cause della mia stanchezza (certamente non la sola) è che da qualche mese (direi dal rientro dalle ferie) mi ritrovo un carico di lavoro maggiore del normale: e' un continuo fare le corse per rispettare le scadenze, grane da risolvere, conflitti da mediare, complicazioni anche per le operazioni di routine. Un'emergenza dopo l'altra. Mi sembra di non riuscire mai a mettermi in pari. Per esempio ultimamente abbiamo fatto di tutto per far rientrare numerosi pagamenti entro una certa data passata la quale sarebbero slittati, per motivi fiscali, all'anno nuovo. Ho fatto le corse per portare questi pagamenti ieri alla banca presso la quale abbiamo la tesoreria, ma, arrivata lì, ho appreso che, non essendoci il funzionario addetto a queste operazioni, questi mandati di pagamento non ce li potevano prendere in considerazione. Ma la banca è privata o pubblica?
Io continuo a prendermela e ad arrabbiarmi, poi improvvisamente, come un flash, mi viene in mente il ministro Brunetta e la sua crociata contro i cosiddetti "fannulloni".
Eh no, caro ministro, non solo io, come tanti dipendenti pubblici, non mi sento fannullona ma mi offendo pure. Anzi, sono proprio stufa di questi luoghi comuni secondo i quali i dipendenti pubblici non fanno un tubo. Certo che ci sono i fannulloni nella pubblica amministrazione! Ma tutti sanno benissimo chi sono. I dirigenti lo sanno per primi, ma allargano le braccia. Preferiscono non affrontare il problema e caricare gli altri del loro lavoro. E gli altri? Bischeri? Onesti? Coglioni? O semplicemente gente a cui piace fare le cose con un minimo di amor proprio? Gente che non riesce a tenere le pratiche lì ferme per dedicarsi ai fatti propri perché sa che quella pratica ferma potrebbe mettere in difficoltà la ditta o il collega che aspettano quel rimborso o quel compenso?
E comunque che strumenti hanno i dirigenti per far lavorare i veri fannulloni? Oltre ad una bella ramanzina che possono fare?
Talvolta con la mia collega che, come me, è capufficio ci sfoghiamo. Ci sono nostre impiegate che non rispettano l'orario di lavoro. Niente di eclatante, per carità. Ci saranno casi ben peggiori. Ad esempio, dilatano la pausa pranzo (che sarebbe prevista di mezz'ora, leggasi MEZZ'ORA) per andare dal parrucchiere o andare a casa a preparare il pranzo alla figlia, ecc. Che fare? Fare una telefonata anonima ai carabinieri? Denunciarle alla magistratura?
Non ci siamo. Caro ministro, non è con i suoi spot che si rimedia ai mali dell'amministrazione pubblica.
I dipendenti pubblici non si dividono in fannulloni di sinistra iscritti alla CGIL da una parte e onesti lavoratori di destra dall'altra. Non è così. I lavoratori pubblici (ma anche privati a quanto di mi dicono amiche che lavorano in grandi aziende) si dividono in quelli che si prendono a cuore quello che fanno e quelli che se ne fregano. Stop. E' solo incoraggiando e incentivando i primi che si combatte i secondi. Non c'è verso: il senso del dovere, la capacita' di iniziativa o ce l'hai o non ce l'hai. Non c'è coercizione che tenga.
Scusatemi per questo sfogo. Era tanto che ce l'avevo sullo stomaco.


Civil servant, il mio primo post sull'argomento scritto in era ante-Brunetta.
Caro Brunetta, quanta miopia...
, un'interessante (anche se un po' lunga) e accorata lettera di un funzionario pubblico.

Nella foto: il luogo del mio sudore (si fa per dire)

mercoledì 26 novembre 2008

Essere madre e precaria oggi

La incontro spesso sull'autobus al ritorno dal lavoro. Con il suo zaino di tipo scolastico, la sua aria un po' a secchiona. E' una collega ricercatrice. Il suo contratto con l'ente scadrà a fine gennaio e dopo non si sa se sarà rinnovato oppure no. Non sappiamo nemmeno se ci saranno concorsi per assumere a tempo indeterminato. Il nostro presidente sta trattando con il ministro Brunetta e nessuno ad oggi può dare alcuna certezza.
Di solito parliamo del più e del meno. Lei e il marito hanno una casa vicino all'istituto ma non hanno a chi lasciare la bambina, che ha meno di un anno. Allora lei si è trasferita dai genitori che abitano a ottanta chilometri da Firenze. Tutte le mattine si alza alle cinque, prende l'auto fino alla stazione, poi il treno e poi il bus. Il pomeriggio al contrario. Infatti è sempre in ansia che il bus ritardi e le faccia perdere il treno. Il marito vede la figlia nel finesettimana.
L'altro giorno la vedo particolarmente nervosa e capisco che ha voglia di sfogarsi. Mi racconta che ha avuto una proposta di lavoro in una grande azienda ma sempre a tempo determinato per un anno e con un orario sicuramente meno favorevole per la sua situazione familiare. "D'altra parte", mi dice, "e se a gennaio rimango senza lavoro perché non mi possono rinnovare questo contratto? E poi in questo periodo non sono in grado di dare il meglio di me con la vita che faccio. Non sono neanche più tanto giovane. A trentacinque anni non posso contare su tante altre proposte di lavoro."
Salutandola pensavo alle mie maternità vissute con la massima tranquillità del posto garantito. Pensavo a chissà quanti casi come il suo ci saranno. Mi chiedevo come fanno i giovani a pensare di fare figli in situazioni così. Mi chiedevo perché bisogna sempre contare a tutti i costi sulla famiglia di origine per poter crearne una propria. Non è naturale. Non è giusto. E mi è salita una gran rabbia.

lunedì 24 novembre 2008

Il punto sull'antimafia

Sabato scorso sono andata al vertice sullo stato della legalità e della lotta alle mafie organizzato dalla Fondazione Antonino Caponnetto, vertice che si tiene ormai da undici anni a Campi Bisenzio. Vi erano, oltre alla vedova Caponnetto, quasi tutti i principali esponenti dell'antimafia, tutti sotto scorta.
Fuori uno schieramento di polizia, carabinieri, vigili urbani. Vicino al palco dei relatori una folla di guardie del corpo. La sala era gremita. Hanno parlato Beppe Lumia, Rosario Crocetta, Piero Grasso, Lorenzo Diana ("l'unico politico di cui Saviano parla bene", così è stato presentato), due imprenditori, Bruno Piazzese di Siracusa, a cui hanno bruciato il pub numerose volte, e Roberto Molinari di Lamezia Terme, che combatte da dieci anni contro il racket. Maria Grazia Fortugno ha detto che, nonostante si sia vicini alla sentenza di primo grado per i presunti assassini di suo marito, siamo molto lontani ad intaccare quella zona grigia di connivenze tra mafia e politica che sta dietro anche a questo assassinio.
Si è parlato di unificare le stazioni di appalto per individuare meglio le infiltrazioni mafiose, di rendere finalmente più veloce e più facile l'utilizzo dei beni confiscati ai mafiosi.
L'avvocato Luigi Li Gotti, senatore dell'Italia dei Valori ed ex sottosegretario alla Giustizia nel governo Prodi, ha detto una cosa allarmante: la richiesta bipartisan di inasprire il 41 bis, pur essendo un provvedimento sicuramente condivisibile, non è accompagnata da altrettanti segnali di sensibilità antimafia, tanto da far pensare ad una "mafia che fa antimafia" cioè ad un provvedimento ispirato dai mafiosi fuori per avere la meglio su quelli in carcere.
Federico Gelli, vicepresidente della Regione Toscana, ha ribadito che la mafia è un problema anche della nostra regione perché, per esempio, solo il 40% delle ditte che vincono gli appalti sono toscane e che ci sono fior di beni confiscati a mafiosi come la splendida villa di Suvignano, nelle Crete Senesi. Improvvisamente mi sono ricordata di esserci passata vicino a questa villa durante un trekking nella Val D'Orcia e mi sono ricordata di che posto fantastico si tratti. La villa e l'azienda agricola di Suvignano pare sia il più grande bene confiscato alla mafia del nord d'Italia ma, per difficoltà burocratiche, ancora non si riesce ad utilizzarlo.
Ma la cosa più bella della serata è stata la partecipazione dei ragazzi di alcune scuole del basso Lazio (Latina, Formia e Gaeta). Questi ragazzi avevano ospitato soci della Fondazione Caponnetto che fanno opera di sensibilizzazione sulla legalità e si erano fatti un discreto viaggio in pullman per portare, con le loro insegnanti, il loro entusiasmo. Li sentivo accanto a me parlare di questi temi, del libro Gomorra, ecc. Al solito la speranza va riposta nei giovani come loro.

venerdì 21 novembre 2008

Viaggio all'ecostazione

Una trasmissione carina su Controradio (emittente locale ma di cui potete ascoltare alcune cose in podcast) si intitola "Questioni di stili", sottotitolo "buone pratiche del vivere quotidiano". Dopo le divertenti puntate nelle quali le conduttrici, Sabrina Sganga e Camilla Lattanzi, hanno fatto irruzione in casa di alcuni personaggi fiorentini per bracare (per dirla alla fiorentina) sulla sostenibilità delle loro abitudini quotidiane, un paio di puntate sono state dedicate invece alle Ecostazioni, quella di Scandicci e quella di San Donnino, alla periferia di Firenze. Si tratta di luoghi dove il cittadino può "conferire" (guai a dire "buttar via") i rifiuti suddividendoli correttamente, grazie all'assistenza degli operatori, nelle varie tipologie riciclabili. Che vantaggio c'è per il cittadino? I rifiuti vengono pesati e al raggiungimento di un certo punteggio o viene fatto uno sconto sulla T.I.A. (è la soluzione migliore, secondo me) oppure gli viene dato un omaggio.
Siccome sono curiosa, ho voluto provare l'esperienza. Ho dato una sistemata alla mia cantina scoprendo un sacco di roba non utilizzata da tempo e destinata a non essere più usata. Ho caricato questi oggetti sulla macchina e un sabato mattina sono andata alla Ecostazione di San Donnino.
Il posto, al contrario di quello che dicevano le due conduttrici, è abbastanza desolato. Si trova accanto al vecchio inceneritore in disuso, tra capannoni industriali e autostrada. All'arrivo una operatrice del consorzio Quadrifoglio, dai modi simpatici e abbastanza spicci, mi ha invitato a suddividere il materiale per categorie sciogliendo alcuni dubbi che avevo. Ho messo la roba su tre carrelli, ho dato il mio nome e indirizzo e lei ha registrato il peso di questo materiale sul computer.
Tanto per avere un'idea ho conferito:
- un bel po' di fogli di carta modulo continuo che erano destinati ai miei figli quando ancora facevano disegni e scarabocchi; una serie di classificatori di cartone e alcuni scatoloni (il tutto in un grosso container per la carta);
- un sacchetto di indumenti inutilizzabili (quelli ancora usabili li porterò al mercatino dell'usato di Mani Tese di cui ho raccontato in un altro post) che ho introdotto in un cassonetto apposito della Caritas;
- un videoregistratore e un ferro da stiro rotti in un container dedicato ai RAEE;
- un cesto di vimini nel contenitore del legno;
- un paio di barattoli di vernici e due lampadine a basso consumo rotte nell'angolo dei rifiuti pericolosi (lo sapevate che le lampadine a basso consumo sono altamente inquinanti?);
- un portapacchi da bici, un portaasciugamani, una griglia e un tubo di scarico della caldaia nel container dei metalli;
- una piscina gonfiabile, dei palloni di gomma sgonfi e della gommapiuma in un contenitore detto "degli ingombranti" dove c'erano giocattoli ed altra roba che, a quanto ho capito, non è affatto riciclabile.
Nel frattempo sono arrivate diverse altre persone (l'operatrice si disperava per l'eccessivo afflusso dovuto al fatto che era sabato), alcune erano esperte e sapevano già cosa fare, altre come me avevano bisogno di aiuto.
Un'esperienza interessante per imparare a differenziare i rifiuti correttamente ed anche per avere un'idea di come funziona la raccolta. Certo non è comodo andarci tutte le settimane e per poche quantità ma di tanto in tanto, per esempio quando si fa un'operazione di ripulisti in casa, è senz'altro da tenere presente. Le ecostazioni o isole ecologiche sono presenti in molte altre parti d'Italia.

martedì 18 novembre 2008

Bagni di folla

Essere tra la folla. Sentire altri corpi vicini. Corpi di sconosciuti. La folla può rassicurare o può spaventare. Può dare fastidio ma può anche esaltare. Dipende dal nostro temperamento, più o meno solitario, dalle circostanze e anche un po' dall'età. Quando ero ragazza mi piacevano i bagni di folla, mi piaceva il rumore e mi mettevano tristezza i luoghi solitari. Adesso è quasi il contrario. Però ci sono delle eccezioni.
Stare in un luogo chiuso affollato mi dà ansia e senso di soffocamento. E' il caso di un bus strapieno oppure dei gremiti subway quest'estate a Londra. Dovevo scacciare il pensiero di trovarmi sotto terra con tutta quella gente che mi avrebbe impedito di scappare in caso di pericolo.
La folla di un mercato o di una strada sotto Natale non mi piace. Mi sento un'anonima consumatrice nell'indifferenza generale. Camminare scansando continuamente corpi mi fa sentire ubriaca e mi fa desiderare dopo poco la calma e il silenzio. Mi sale quasi subito un forte desiderio del silenzio di un bosco o di una cima. Questo tipo di insofferenza l'ho sviluppata con l'età.
Diverso è il caso di una folla con cui sento di condividere qualcosa.
Come nei cortei di protesta dove, tra l'altro, difficilmente ci sentiamo compressi fisicamente. Di solito si cammina un po' diradati per permettere di mostrare gli striscioni e i cartelli. Lì mi sento a mio agio. Mi riconosco come parte di un gruppo umano che condivide una passione. Non ci conosciamo ma ci scambiamo sorrisi, battute, ci fotografiamo a vicenda. E' bello anche scandire slogan tutti insieme o dar fiato al fischietto.
Ma il senso di condivisione che si prova nei concerti pop o allo stadio è unico. Sento di non avere più l'età per queste cose, ma talvolta mi lascio convincere ad accompagnare i miei figli. Al concerto di Jovanotti dove portai mio figlio piccolo nel 2005, mi lasciai trascinare dall'entusiasmo dei fan e ballai tutto il tempo. Recentemente invece mi è capitato di trovarmi nel bel mezzo della curva allo stadio, dove non c'è verso di stare seduti e dove se non canti vieni subito rimproverato. Confesso che non me ne importava un fico secco delle sorti della partita però è stato divertente farsi coinvolgere e cantare a squarciagola: "Finché vivrò, sosterrò la Fiorentina!" sulle note di Bandiera Gialla. Per una volta ho dimenticato tutti i detestabili aspetti del calcio (soldi e violenza) per lasciarmi andare in uno sfogo liberatorio.
Per una volta si può fare.

lunedì 17 novembre 2008

Auguri!


Sessant'anni insieme sono davvero un bel traguardo!

Ai miei suoceri i migliori auguri e un grazie per tutto l'affetto che mi hanno sempre dimostrato.

Artemisia

sabato 15 novembre 2008

Cronaca di una giornata di protesta


Sveglia alle quattro per essere in piazza Stazione alle cinque. Partiamo con il pullman che la città è ancora buia e deserta. Colazione presso l'autogrill dove incontriamo i colleghi che sono partiti da Firenze con altri pullman. Ci scaricano tutti davanti alla stazione della metropolitana a Rebibbia. Non riusciamo a prendere il primo treno ma subito arriva il secondo. Usciamo alla fermata del Circo Massimo e ci incamminiamo verso piazza Bocca della Verità dove è previsto il concentramento del corteo del sindacato. Gli studenti si stanno radunando in altri tre punti della città.
Il tempo sembra mite. Qualche nuvola ma nessun rischio di pioggia.
Piazza Bocca della Verità è piena di palloncini colorati della CGIL e di striscioni dei vari enti di ricerca e delle varie università. Aspettiamo più di un'ora prima di partire perché devono arrivare altre delegazioni (almeno così dice l'altoparlante).
Il nostro ente ha ben quattro striscioni di cui uno dei precari del Buconero che indossano tutti una maglietta bianca e distribuiscono questo simpatico badge:


Finalmente e lentamente si parte. Grande successo dello slogan che mi porto appeso al collo e che mi ha suggerito Cristiana. In molti mi chiedono di fotografarlo. Lungo il percorso è un continuo incontrare colleghi di altre città, spesso più lontane, e la prima domanda che sorge spontanea è: "Ma a che ora sei partito stamani?" Catania, Bari, Venezia, Trieste, Genova, Napoli. Una grande passione spinge questa gente a saltare la notte, a rimetterci la giornata di sciopero, a tornare tardi la sera. Per esserci. Per manifestare la propria preoccupazione e il proprio dissenso.

Arriviamo in Piazza Navona e cominciano i comizi dei sindacalisti e le testimonianze di alcuni precari. Ogni tanto l'altoparlante ci annuncia che il corteo degli studenti sta arrivando. Aspetta, aspetta, ma questi studenti non si vedono arrivare. Finiscono gli interventi.
Ci incamminiamo verso Torre Argentina ed eccoli là gli studenti: tanti, molti più di noi, belli, giovani, rumorosi. Corre voce che vogliano andare verso i palazzi del potere, ma il dispiegamento di poliziotti antisommossa che abbiamo visto a chiudere la strada che porta a Palazzo Madama ci preoccupa. State attenti ragazzi!
Una mia collega mi fa: "Non potevamo tornare a casa senza vederli. Sono la cosa più bella della giornata!"
Ha ragione. Non potevamo non vederli. Sono la nostra speranza, speranza che illumina il volto radioso e sorridente di Belphagor. Peccato che non mi sono potuta fermare che solo per un saluto (sarà per un'altra volta, Belphagor!).
Ritorniamo a Rebibbia, riprendiamo il pullman e ripartiamo.
A casa arriviamo verso le 20.30. L'unico TG ancora disponibile è quel cesso del TG2. Della manifestazione parlano due secondi quasi alla fine. Che vergogna!
Non importa quanti eravamo. Cinquecentomila, duecentomila, trentamila. Non è questo l'importante. L'importante è che l'Onda non si fermi.

P.S. La prima foto è tratta dal sito de L'Unità.
Le mie foto invece sono visibili in questo album.

giovedì 13 novembre 2008

Domani sono a Roma

Sono assai preoccupata della rottura dell'unità nel fronte sindacale. E' un film già visto nel 2002 quando CISL e UIL firmarono lo scellerato "Patto per l'Italia". La risposta fu la memorabile manifestazione del 23 marzo quella detta "dei tre milioni". Speriamo bene.


Tra i tanti articoli apparsi in questi giorni mi e' piaciuta per la sua chiarezza questa lettera apparsa su Aprile online.

Ragazzi vi stanno ingannando
I baroni hanno vinto ancora una volta. Il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto che premia lo status quo e azzera ogni possibilità di svecchiamento dell'università. Una buona notizia per i dinosauri accademici, ma l'ennesimo schiaffo al movimento di protesta.

Insomma alla fine i baroni hanno vinto ancora una volta. Il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto che sblocca i concorsi per 1800 tra professori, associati e ordinari, e 320 ricercatori.

Si è proprio così: un giovane assunto dall'esterno tra le migliaia di precari che lavorano negli atenei ogni 6 promozioni di docenti già in servizio. Anzi ogni 12. Si perché i concorsi per ordinari ed associati sono 1800 ma per ogni concorso oltre al vincitore c'è la possibilità di chiamare in servizio anche un idoneo, ovvero 3800 posti di ordinari e associati e solo 320 posti per decine di migliaia di giovani.

E' questo lo scambio che il governo ha proposto all'accademia. Il perpetuarsi di una piramide rovesciata: pochi giovani ricercatori di ruolo (tanto ci sono i precari da sfruttare), moltissimi associati ed ordinari con un'età media che si avvicina ai 60 anni. Tutto questo in cambio del silenzio su tutto il resto: riduzione dei fondi pubblici, privatizzazione degli atenei ecc.

Un imbroglio bello e buono. Un'operazione che premia lo status quo e azzera ogni possibilità di svecchiamento delle nostre università, di stabilizzazione, attraverso una selezione seria e meritocratica, dei giovani che in queste settimane si sono spesi generosamente in una lotta che oggi viene svillaneggiata dal governo e svenduta da larga parte dei loro docenti.

Sono ragionevolmente certo, infatti, che il decreto odierno sarà salutato con favore da larga parte del mondo accademico. Esso, infatti, premia non certo il merito e la spinta al rinnovamento ma le consorterie e le baronie, il corporativismo e la clientela.

Ragazzi vi stanno imbrogliando, stanno davvero uccidendo i vostri sogni. Fatevi sentire, potete ancora cambiare le cose con la vostra mobilitazione!

lunedì 10 novembre 2008

La fatica della coerenza

La coerenza è un tema molto sentito quando osserviamo gli altri, assai meno quando riguarda noi stessi. Spesso e volentieri infatti ad ognuno di noi piace sottolineare le ambiguità che vediamo mentre, nello stesso tempo, siamo i primi a peccare di incoerenza senza rendersene conto.
Quando io, per esempio, predico uno stile di vita rispettoso dell'ambiente, è probabile che sia apparsa come una perfettina impeccabile maestrina in questo campo. In realtà anch'io ho le mie belle ambiguità. Per esempio, sono la prima a criticare l'usa-e-getta perché incrementa inutilmente la produzione dei rifiuti, ma continuo ad usare fazzoletti e tovaglioli di carta perché, lo ammetto, mi fa fatica lavare (stirare poi non ne parliamo) quelli di stoffa. So benissimo che le merendine confezionate fanno male perché contengono grassi insalubri, ma la mia pigrizia mi impedisce di mettermi a confezionare con le mie manine sane torte per la merenda dei miei figli.
Delle nostre piccole quotidiane incoerenze parla un libro della psicologa Simona Argentieri che si intitola "Ambiguità" e di cui ho sentito la sua presentazione sia a Fahrenheit Radio 3
sia al Festival della mente (qui ne trovate una recensione su La Stampa).
L'Argentieri, facendo tesoro della sua esperienza clinica, ci illustra la diffusa forte tentazione di fare click in qualche nostro ideale e nello stesso tempo disattenderlo senza che questo ci procuri alcun tipo di disagio o di malessere. Spesso si proclama tranquillamente la propria indignazione e non è difficile individuare negli altri i meccanismi della malafede, salvo poi fare lo stesso in modo del tutto naturale.
Non si tratta di due aree una conscia e l'altra inconscia. Sono meccanismi che vivono entrambi nel conscio ma semplicemente non comunicano. Anche nella vita quotidiana se si prova a far confrontare qualcuno con il suo "funzionamento ambiguo", dice l'Argentieri, la risposta è paradigmatica "Sì, però..." formula magica per far coesistere le ambiguità. Secondo la psicologa si tratta di una creatività perversa che consente di mantenere l'autostima e un alto concetto di sé, avere degli ideali e disattenderli.
Come recita una vignetta di Altan:
"Nasciamo con un amore sconsiderato per la verità ma siamo pronti a liberarcene non appena ci sia d'impaccio."
Attenzione: qui non stiamo parlando di cinismo, precisa l'autrice. Il cinico è colui che fa come gli pare e lo sa (e fa l'esempio dei politici divorziati che difendono strenuamente l'integrità della famiglia). Nell'ambiguità di cui si parla l'inganno è fatto anche a noi stessi. Secondo l'Argentieri l'ambiguità ci dà dei vantaggi momentanei ma alla lunga è un cattivo affare.
Non ho capito bene in realtà cosa la psicologa proponga per superare la nostra ambiguità. Personalmente ritengo che non si possa pretendere da noi stessi di essere coerenti al 100% con i nostri principi. Però è vero che, come dice l'Argentieri, il primo grande passo sia quello di essere consapevoli del meccanismo. In fin dei conti, diciamolo, la coerenza è una gran fatica.

venerdì 7 novembre 2008

Ospiti stranieri

Alessandro, nato a Napoli, è Assistent Professor all'Università di Duesseldorf
Carlo, nato a Piacenza, è Phd Student a Postdam
Giovanni, nato a Modena, lavora a Parigi
Cristina, nata a Faenza, lavora alla Durham University
Paolo, nato a Torino, è Post Doc in Spagna
Sono solo alcuni casi che mi capitano tra le mani quando liquidiamo collaborazioni scientifiche con ospiti stranieri. Certo anche gli stranieri veri, quelli nati all'estero, spesso e volentieri li vediamo finiti a lavorare in un paese diverso da quello di origine. Il ricercatore tedesco che lavora in Olanda, il Russo che è professore negli USA, ecc. Quando si sente parlare di "fuga di cervelli", espressione un po' ridicola, viene da pensare a scienziati famosi. Poi ti capitano fra le mani i documenti di identità di questi "ospiti stranieri" e vedi che si tratta semplicemente di ragazzi e ragazze, nati magari in provincia, e finiti a lavorare da qualche altra parte nel mondo. E allora pensi alla storia che ci sta dietro quel documento di identità. Pensi alla famiglia che li vede una volta ogni tanto quando c'è l'occasione. Pensi che forse ad Alessandro, Carlo, Giovanni, Cristina e Paolo sarebbe piaciuto fare il loro mestiere di ricercatore in Italia.
In ogni caso, fossi un giovane laureato, non avrei dubbi e andrei a lavorare all'estero, soprattutto in un paese europeo. Una ragazza di Bologna, Barbara, che lavora all'Università di Colonia, tempo fa mi spiegava quanti vantaggi aveva trovato in Germania dove, per esempio, può scalare dalle tasse tutto quello che le serve per il suo lavoro (acquisto di computer, libri, ecc.).
Chi glielo fa fare di tornare in Italia?

martedì 4 novembre 2008

L'arte del commento

Un po' di tempo fa' sentii a Fahrenheit (Radio3) definire l'attività dei blogger: "sentire il bisogno di mettere in condivisione pezzi di interpretazione della vita". Mi è piaciuta molto questa definizione. In effetti spesso mi chiedo (come ho fatto anche in altri post) il senso non solo di tenere un blog, ma anche quello di leggere i blog degli altri, il significato di lasciare un commento o di rispondere a quelli ricevuti. Non ho trovato risposte però mi è piaciuta la definizione di "condividere pezzi di interpretazione della vita".
Commentare, per esempio, è quasi un'arte, che ognuno interpreta a modo suo. C'è chi, come il mio amico Dario, ama più commentare che scrivere post. Mi ricordo un ottimo post di Marina sull'argomento che vi consiglio di leggere e a cui è difficile aggiungere qualcosa .
Per quanto mi riguarda c'è da dire che quando seguivo pochi blog ero molto più accurata e puntuale nel commentare. Adesso ho così tanti amici blogger e ci tengo a mantenermi in contatto con loro, che mi accorgo di essere un po' frettolosa nei commenti (e, ahimè, anche nella lettura). E' un'attività che mi piace molto ma mi rendo conto che la quantità fa un po' a cazzotti con la qualità nel senso che spesso, per mancanza di tempo, sono costretta a leggere un po' superficialmente i post e lasciare, più che dei commenti veri e propri, delle tracce del mio passaggio del tipo "concordo", "anch'io la penso così", "hai ragione", "ti capisco". Sono consapevole che è un po' deludente per uno che ci ha messo un certo impegno e una certa passione per scrivere il post e gli piacerebbe che questo aprisse una certa discussione, ricevere commenti così. Fanno comunque piacere, per carità, ma sono poco più che saluti. Scusatemi, amici blogger, ma davvero di più non ce la faccio! Mi sembra già molto riuscire a leggere più o meno integralmente tutti i vostri post. Sono sicura che mi comprenderete.
Un'altra questione che talvolta mi pongo (ma non solo io, a quanto leggo) è se rispondere puntualmente ai commenti ricevutio no. Non sempre lo faccio oppure talvolta opto per una risposta, diciamo così, collettiva. Devo dire che su questo mi sento meno in colpa, nel senso che mi rendo conto che talvolta i commenti che mi lasciate sono della categoria di cui sopra, cioè affettuose tracce di passaggio, e quindi credo che i loro autori non si offendano se non controcommento. Vorrei essere precisa e diligente come Rino che risponde a tutti i commenti, in modo vario e originale e soprattuto sempre con un garbo e una gentilezza rari. Ma anche qui, ahimè, il tempo e la stanchezza si fanno tiranni.

sabato 1 novembre 2008

Siamo tutti bugiardini

Un'amica di cui ho perso le tracce, come spesso succede, era solita salutarmi con frasi del tipo: "Ti telefono sicuramente in settimana!" oppure "Ci vediamo assolutamente nei prossimi giorni!". Sembrava così e perentoria nelle sue promesse che io, le prime volte, mi stupivo del fatto che poi puntualmente non le mantenesse. Mio marito l'aveva soprannominata "bugiardina".
A pensarci bene, però, siamo tutti un po' bugiardini. Chi di noi non saluta con la promessa di risentirsi o di rivedersi, anche se, interrogandoci seriamente, sappiamo già che sarà difficile mantenere la promessa? Poi magari capita che ci rivedremo davvero ma al momento che lo diciamo non intendiamo certo impegnarci seriamente. E' una convenzione dirsi "Ci vediamo" o "ci sentiamo" e forse queste frasi vanno prese così, come una parte del saluto, non alla lettera.
Quando ero più giovane e più intransigente la cosa mi faceva star male. "Meglio non promettere niente che mentire", mi dicevo. Poi crescendo ho imparato ad accettare le convenzioni. Come quella che prevede la domanda rito "Come stai?" mentre in realtà non ce ne importa poi molto di saperlo. Basta provare a raccontare davvero in dettaglio i nostri malesseri ed acciacchi vari per vedere l'imbarazzo o la noia del nostro interlocutore. Attenzione: sto parlando di conoscenze superficiali, non di amici veri, sto parlando di chi mente in mala fede per ottenere un vantaggio.
In tutti quei contatti che rimangono alla superficie della nostra vita un "Come stai?" o un "Ci vediamo" non si negano a nessuno. In fondo siamo tutti bugiardini!